La psicogenealogia si inquadra nel più ampio ambito delle psicologie transgenerazionali e viene caratterizzata da Anne Anceline Schuetzenberger con l’utilizzo del genosociogramma – albero genealogico familiare esteso a tutte le generazioni passate anche molto lontane, da lei ideato – e dello psicodramma – è stata allieva di Levi Moreno, che lo inventò. Il tema dell’emerso e del nascosto, centrale in questo lavoro e in una pedagogia che vuole affrancarsi dal legame con la funzione di trasmissione di principi del socialmente accettabile, viene trattato dalla Schuetzenberger con una precisa distinzione: “Abbiamo spesso un conflitto tra due tipi di trasmissione talvolta contraddittori o divergenti: […] ciò che è chiaro nella trasmissione, tra generazioni a contatto […] – l’intergenerazionale – parte visibile dell’iceberg […] e ciò che è tenuto segreto, il non detto, […] – il transgenerazionale – […] tanto più attivo perché silenzioso […]” . Ci sono traumi, lutti, “compiti incompiuti” o anche fatti felici che attraversano le generazioni e che esercitano la loro influenza su individui che non ne possono avere memoria. Ci interessa molto sottolineare il vissuto di ambivalenza tra la lealtà alla famiglia e il desiderio, il bisogno di prenderne le distanze. Tuttavia la reazione non corrisponde all’autonomia bensì a un legame di dipendenza attraverso l’opposizione. Si tratta infatti, per compiere il passaggio alla vita adulta, di “[…] liberarsi dall’impresa di famiglia, […] poter operare delle scelte per se stessi, ed eventualmente scegliere un’altra forma […] di indirizzi e di vita . La Schuetzenberger, per avere accesso alla spiegazione di come eventi così lontani e apparentemente scollegati tra di loro possano invece influire fortemente sulla vita delle persone – convinzione che le deriva dalla sua lunghissima esperienza di psicoterapeuta – approfondisce in modo molto preciso i concetti di conscio e inconscio di Freud, Jung e Moreno, ne evidenzia le differenti sfumature che riguardano le sfere individuali, collettive e famigliari, costruendo una base ampia in virtù della quale è possibile dar significato a situazioni concrete come quelle che chiama sindrome d’anniversario, perdite inaccettabili, lutti non elaborati, effetto Ziegarnik – che consiste nella propensione a ricordare più facilmente ciò che non concludiamo piuttosto che ciò che portiamo compiutamente a termine:
“Facciamo l’ipotesi di compiti non portati a termine, di lutti, delle varie perdite delle quali non si è ‘discusso’ e quindi in quel periodo non elaborate né lavorate, come se il traumatismo funzionasse alla stregua di un onda di risacca […] in grado di raggiungere più generazioni. Con questa ipotesi abbiamo trovato delle ripetizioni flagranti e ‘liberato’ spesso le persone da un passato non digerito, il loro proprio passato o appartenente ad antenati lontani che noi abbiamo potuto ritrovare insieme a loro […] .
Questo brano non solo sintetizza in modo straordinario l’ampiezza della visione transgenerazionale offerta dall’autrice ma testimonia anche l’importanza che ricopre l’atteggiamento clinico con il quale si vanno a verificare “da vicino” delle ipotesi insieme a chi ne è il portatore, condividendole con lui e chiedendo il permesso di poterle verificare e significare insieme.
Fa anche riferimento al “lavoro di faccia” – che permette di esprimere indirettamente ciò che non sarebbe possibile fare in via diretta. Parlando di una situazione famigliare in cui sono interrotti i legami tra alcuni membri, ciò che pare importante è che la vita famigliare vada avanti “[…] senza che nulla venga detto: vengono ristabiliti i legami, nessuno ha perso la faccia, nessuno ha evocato cose sgradevoli, nessuno si è scusato, non si è scavato nel fango, non c’è stato alcun sommovimento, non si sono lavati i panni sporchi in famiglia. […] Ciascuno sa da terzi che l’altro sa e non ne parla: l’accordo, vitale per l’onore […], è tacito.”
È qui evidente un richiamo al non detto, a ciò che è taciuto, dimenticato, indicibile e che per sua natura abita nell’Ombra, destinato a diventare tanto più potente e incontrollabile quanto più rimosso e inascoltato.
Una situazione che incontriamo spesso, anche citata dall’autrice, è quella del “doppio legame” che, attraverso due ordini contradittori , e per questo ineseguibili, spesso condanna le persone all’impossibilità di esprimersi. Ma quello che la parola non può esprimere verrà espresso dal corpo; ecco dunque il fenomeno della somatizzazione che potrebbe anche arrivare alla psicopatologia se, ad esempio, da una parte si cerca di incoraggiare l’autonomia e l’indipendenza, mentre dall’altra, in modo incoerente e paradossale, si sollecitano e rinforzano le parti infantili, primarie.
Ciò che è importante per la Schuetzenberger, fondamentale anche per noi, è la possibilità per i suoi pazienti di cogliere la propria vita nel suo insieme, ivi comprese le generazioni lontane per capire veramente ciò che è essenziale per se stessi, è “[…] liberare, rompere il silenzio, tagliare il legame infernale detto della lealtà inconscia. […] L’analizzato (la persona che lavora su se stesso) come l’analista fingono a volte di ignorare, cosa che rappresenta un comportamento ben noto nella strategia della parola: l’analizzato ignora il proprio sapere – quello dell’inconscio – mentre l’analista ignora tutto il trauma del proprio paziente, senza essere vittima, per quanto riguarda la realtà, del trauma avanzato, affinché esca alla luce del sole, questa volta in una forma più chiara” .
Vogliamo citare altri due aspetti trattati dalla Schuetzenberger che abbiamo sovente incontrato nei nostri colloqui: uno è rappresentato dalle dinamiche stereotipate che sono ben rappresentate nel triangolo drammatico di Karpman, l’altro riguarda la giustizia riparatrice.
In un articolo del 1968 , Stephen Karpman sostenne che le persone entrano in relazione tra loro assumendo specifici ruoli che in seguito sono rinforzati attraverso comportamenti stereotipati che tendono a confermarli. Lo schema del triangolo di Karpman ai cui vertici stanno i tre ruoli – Vittima, Carnefice, Salvatore – che a seconda delle situazioni si possono scambiare tra le persone coinvolte nella relazione, ci aiuta a smascherare gli abusi compiuti con il pretesto di aiutare gli altri, a capire che senza il consenso di chi aiutiamo possiamo trasformarci facilmente da Salvatore a Carnefice o, sopraffatti dall’impotenza, in Vittime di chi abbiamo creduto di aiutare, che in questo caso si trasforma nel nostro Carnefice. “Nulla può devastare come il fare per gli altri cose senza domandar loro se ciò è davvero ciò che desiderano – e ancora, domandandolo in un certo modo” . Ancora una volta l’autrice ci riporta all’importanza di capire profondamente il desiderio di chi abbiamo davanti, di rispettarlo e di seguirlo con lui, se ce ne dà il permesso.
Il concetto di giustizia riparatrice si riferisce a una giustizia umana e non unicamente legale. Si basa sul principio che le punizioni non migliorano le persone e non le cambiano veramente. La cosa più importante non è punire, bensì riparare i danni emotivi e materiali. I protagonisti dell’ingiustizia, vittime e colpevoli in particolare, sono tutti coinvolti nella riparazione. L’autrice fa rifermento a una tradizione Maori dove si tratta di creare un luogo di incontro di tutte le persone coinvolte con il solo fine di esprimere ciò che si sente in quel momento, fuori da contesti formali di giustizia. Ciò che ci interessa particolarmente sottolineare qui è l’aspetto creativo della gestione di un conflitto dove si può promuovere, ascoltare e legittimare la possibilità di riparazione del colpevole, chiamato al compito forse più duro per lui: quello di assumersi la responsabilità dei suoi atti. Secondo il concetto della riparazione, per le vittime questa assunzione di responsabilità può contare molto di più della condanna legale in termini di alleviamento del senso di solitudine nel vivere il dramma che gli è occorso. Inoltre, separando gli atti dalle persone, questi si possono considerare separatamente: il comportamento come da condannare e da non ripetere, la persona come attore capace di assumersi la responsabilità delle conseguenze dei suoi atti e l’onere di trovare il modo di riparare a esse.