Il counselling nasce da una esigenza di sopperire ai sistemi di reti sociali (amici, famiglia, vicinato, comunità dei cittadini), messi in crisi o profondamente modificati nelle loro dinamiche interne e di connessione tra loro dall’evolversi della società, nella loro funzione di garantire sostegno, vicinanza e aiuto alle persone in caso di problemi e disagi difficili da affrontare da soli. Effetto di questa opportuntà di espressione e rispecchiamento era una maggiore consapevolezza delle proprie capacità che in una certa misura si è sempre rivelata utile ad affrontare, e spesso a superare, la situazione problematica. Oltre questa misura, erano chiamati a intervenire gli specialisti delle patologie (neuropsichiatri, psichiatri, psicologi e psicoterapeuti).

Dunque, oggi il senso dell’esistere del counselling potrebbe essere, da un lato, di promuovere “[…] la facilitazione della relazione umana, il potenziamento dell’autoconsapevolezza, della capacità personali e dell’efficacia della propria comunicazione con gli altri”* e dall’altro, anche in conseguenza a ciò, di evitare la patologizzazione impropria di situazioni e persone, orfane di quel supporto naturale di cui sopra, che con la patologia non c’entrano necessariamente ma che spesso non hanno opportunità più rispondenti ai loro reali bisogni o a una parte di essi.

Alcuni paesi stranieri, in particolare quelli anglosassoni, hanno recepito questo concetto in modo compiuto, tanto che il counselling è utilizzato dalla popolazione insieme o in alternativa alle altre professioni di aiuto e riconoscuto dalla società come arricchente l’offerta dei servizi ai cittadini rispondendo con più precisione ai nuovi bisogni.

Mi auguro di poter vedere presto anche in Italia una simile evoluzione, alla quale nel mio piccolo voglio contribuire esercitando in modo etico, preciso e trasparente questa professione e divulgandone le qualità e le specificità.

*V. Soana, “Il processo di counseling”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2020