“Pur con varia intensità e pur adottando sanzioni diverse, quasi ovunque si ritrova […] la tendenza a sbarazzarsi il più in fretta possibile del bambino che è in noi, ossia della creatura debole, indifesa e dipendente per poter diventare l’individuo adulto, autonomo ed efficiente, che merita considerazione. Quando ci capita di ritrovare quella creatura nei nostri figli, allora la perseguitiamo con mezzi analoghi a quelli usati con noi stessi. E tutto questo lo chiamiamo ‘educazione’.[1]Alice Miller, nell’elaborare la sua visione del “bambino” dotato, inascoltato e perseguitato, esposta nelle sue opere - cui facciamo riferimento nelle note e in bibliografia - si rifà alla lettura che Kohut dà dell’individuo narcisistico. “I pazienti narcisistici […] hanno […] un Sé arcaico bloccato nel suo sviluppo, che necessita quindi di specifiche risposte ambientali per mantenere un Sé coeso. Kohut spiega questo stato di cose come il risultato di fallimenti empatici dei genitori. In particolare i genitori non hanno risposto all’esibizionismo del bambino, normale rispetto alla sua fase di sviluppo, con validazione e ammirazione, e senza offrirgli modelli degni di idealizzazione. Kohut concettualizza il Sé narcisistico come un “normale” Sé arcaico congelato nel suo sviluppo: ‘come un bambino in un corpo di adulto’”. […] Da bambino l’individuo narcisista ha subìto un grave colpo alla stima di sé, che lascia il segno e modella la sua personalità. Questa ferita implica un’umiliazione, in particolare implica l’esperienza di essere impotenti mentre un’altra persona prova piacere nell’esercitare su di lui il suo potere. Quando il bambino è costantemente esposto ad umiliazioni, la paura di essere umiliato finisce per essere strutturata nel corpo e nella mente. Ad Alice Miller, ex psicoanalista svizzera, dobbiamo una delle recenti, appassionanti riletture della storia familiare nella quale si pongono le premesse della modalità relazionale narcisistica.”[2]Essa dedica buona parte del “Dramma del bambino dotato” al disprezzo della debolezza e alla mortificazione del bambino affermando che “[…] Il mito di Narciso illustra il dramma della perdita del Sé, del cosiddetto disturbo narcisistico.”[3] L’espressione pedagogia nera fu utilizzata da Katharina Rutschky[4] che intitolò così un libro (1977) dove raccolse diverse “raccomandazioni pedagogiche” usualmente seguite in Germania basate sui metodi del Dott. Schreber, medico e pedagogo, da lui stesso messi a punto nella prima metà del XIX secolo. Obiettivo della pedagogia nera era quello di ridurre i bambini alla incondizionata obbedienza e sottomissione agli adulti nella convinzione che la natura “cattiva” del bambino sarebbe stata così adeguatamente corretta. A questa cupa realtà Alice Miller attribuisce non solo la tristezza della condizione di solitudine e deprivazione dei bambini ma anche l’impossibilità per loro, una volta adulti, di rendersi consapevoli di ciò che per loro ha significato quella condizione se non attraverso un lungo lavoro di psicoterapia. In estrema sintesi quell’insieme di pratiche, di cui la Rutschky ci fornisce una esauriente descrizione, producono secondo la Miller un danno che non si ferma al bambino vittima di tali pratiche ma che, attraverso di lui, si protrae e trasmette alle generazioni successive. Il bambino, infatti, nasce dipendente dai suoi genitori, in particolare dalla madre. È dipendente non solo per l’aspetto fisico ma anche, e soprattutto, per quello affettivo. Infatti l’amore dei genitori è qualcosa a cui il bambino non può rinunciare ed è disposto a tutto per conservarlo; anche ad annullarsi, se necessario. L’annullamento della forza vitale del bambino corrisponde all’annullamento del suo vero Sé che, impossibilitato a esprimersi già in tenera età, obbligherà il piccolo a dotarsi di un Sé corrispondente alle richieste dei suoi genitori; in questo modo l’amore dei genitori è assicurato al caro prezzo della repressione della propria forza vitale. Non avendo alcuno strumento che gli consentirebbe di ribellarsi a questa violenza - nemmeno un piccolo spazio dentro di sé -, non avendo la legittimazione a esprimere tristezza, rabbia, odio per ciò che gli sta succedendo, cosa che solo un adulto amorevole e realmente interessato ad ascoltare i suoi bisogni potrebbe fornirgli, al bambino non rimane altro che spingere tutti questi sentimenti illegittimi nel più profondo del suo inconscio. Da adulto, il ricordo delle violenze subite continuerà a risiedere nel suo inconscio e ogni qual volta le situazioni della vita rischieranno di rievocarlo, di farlo emergere dal profondo, ecco che l’adulto, incapace di ascoltare il bambino che è stato, lo respingerà sempre più in fondo. Praticherà a scopo difensivo il meccanismo della scissione di parti del Sé, per lui invivibili e inaccettabili, e della loro proiezione all’esterno, depositandole sulle persone in relazione con lui. La Miller intravede questi meccanismi nel “Discorso di Posen” - attraverso il quale Himmler ringraziava le SS dello sterminio degli ebrei – frutto di una educazione a una durezza insensata che costringe a soffocare nel Sé ogni forma di debolezza[5]. Secondo la Miller “[…] Le nevrosi e le psicosi, infatti, non sono dirette conseguenze di reali frustrazioni bensì l’espressione della rimozione di traumi. Quando si tratta soprattutto di educare i bambini in maniera che essi non si accorgano del male che si fa loro, delle cose di cui li si priva, di ciò che essi perdono, […] di chi essi siano in realtà […] allora in seguito l’adulto vivrà la volontà degli altri come se fosse sua propria. Come potrà mai infatti sapere che la sua volontà è stata stroncata dal momento che non gli è mai stato consentito di farne esperienza?”[6] Non sarà in grado di empatizzare con la condizione sofferente dei bambini che, non avendo avuto il permesso di vivere nella sua infanzia, non riuscirà a riconoscere e a capire. Inoltre, da genitore, si troverà a disposizione un bambino che potrà manipolare e plasmare a suo piacimento, secondo le esigenze di quel bambino inascoltato che è stato e che lo condizionano ancora da adulto, senza che ne sia pienamente consapevole. Infatti se “[…] non abbiamo avuto la possibilità di vivere e rielaborare in modo cosciente il disprezzo di cui siamo stati vittime nella nostra infanzia continueremo a riprodurlo e a trasmetterlo ai nostri figli.”[7]. Almeno fino a quando la vera realtà vissuta nell’infanzia non avrà la possibilità di mostrarsi alla consapevolezza dell’adulto, di essere avvicinata, raccontata, elaborata, il rischio è quello di una coazione a ripetere intergenerazionale. Tutto questo comporta l’affrontare un dolore profondo, da cui per una vita intera quell’adulto è riuscito a fuggire. Ma sarà proprio il contatto con la verità e con il dolore da questa portato che costituirà un primo passo verso la libertà di “espressione del vero Sé”, il che costituisce in ultima analisi una condizione vitale e irrinunciabile per ogni individuo; condizione che i princìpi della pedagogia nera rendono impraticabile.Tra Alice Miller e la psicoanalisi si verificò una frattura insanabile al punto da determinare la sua fuoriuscita negli anni ’80 dall’Associazione psicoanalitica e in questa sede non ne approfondiremo i motivi. Quello che tuttavia ci colpisce del suo lavoro è il tentativo di spiegare “le radici della violenza” attraverso l’analisi e la ricerca su una pratica diffusa in tutto il mondo: la violenza a danno dei bambini, i traumi, le paure i dolori che ne derivano, la replicazione della violenza da parte di chi a sua volta la subì. Non vogliamo entrare nel merito dei dubbi che hanno portato la Miller ad abbandonare la teoria delle pulsioni come il cardine della teoria della psicoanalisi; vogliamo però sottolineare che tale via è stata da lei percorsa “[…] per non rinunciare al principio fondamentale di imparare dai miei pazienti senza volerli costringere ad adattarsi alle mie teorie.”[8] Pensiero che per noi costituisce un principio fondamentale.[1] Miller A., La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pag. 51.[2] Di Palma M., Narcisismo come ferita relazionale, in Pratica psicoterapeutica – Il mestiere dell’analista – n°6, 1 – 2012 mese di Giugno[3] Miller A., Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero Sé, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pag. 72.[4] Rutschky K., La pedagogia nera, Mimesis, 2015[5] Ibidem, pagg. 69-70[6] Ibidem, pagg. 14-15.[7] Ibidem, pag. 5[8] Miller A., Il bambino inascoltato, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, pag. 127

Chiedi info