Il contributo delle discipline psicologiche sociali culturali e popolari ci interessa qui nella misura in cui assume in modo esplicito una prospettiva emica, cioè che conferisce centralità al punto di vista dell’attore - che vede le cose “dall’interno della situazione”; tali discipline si sono interessate a modi e motivi con i quali le persone attribuiscono il significato a ciò che succede sia dentro di loro sia nel loro contesto e in che misura questo significato subisce modificazioni per via delle continue interazioni dell’individuo con il contesto in cui è calato in relazione all’evento preso in analisi.

Secondo Bruner, attraverso il riavvicinamento al punto di vista dell’attore sociale e alla centralità della cultura come agente motivante alla significazione – orientativo, dunque, all’azione – la psicologia ha l’opportunità di ritrovare il suo centro e di ricollocarsi accanto alle altre discipline deputate allo studio della mente e della condizione umana, uscendo da uno specialismo autoreferenziale che ne ha determinato la frammentazione e l’isolamento da queste. “Nella psicologia è diffusa una certa inquietudine, una preoccupazione per lo stato della nostra disciplina, e oggi un nuovo orientamento di ricerca verte proprio su una sua riformulazione. A dispetto del costume dominante […] si affrontano di nuovo le grandi questioni della psicologia […] come l’uomo costruisce i suoi significati e le sue realtà, su come la storia e la cultura contribuiscono a formare la mente.”[1]

Si tratta per Bruner non di analizzare tutti gli aspetti del processo di costruzione del significato ma di ammettere che la psicologia possa anche avventurarsi oltre gli ideali della scienza positivistica – riduzionismo, causalità, predizione – occupandosi principalmente del significato diventando così “[…] inevitabilmente una psicologia culturale […]”[2] L’imperativo che una comprensione delle cose sia valida solo se frutto di una corretta previsione – predittività – lascia credere che una comprensione a posteriori non servirebbe a nulla. “La nostra costante ricerca di criteri di significato basati sulla verificabilità, come ha evidenziato Rorty, ci ha resi succubi della previsione, considerata come criterio indicativo della ‘buona scienza’ e quindi della ‘buona psicologia’.”[3] La cultura avrebbe il pregio di poter trascendere il limite che il determinismo biologico del comportamento umano ha posto alla natura umana. Inoltre non va considerata in senso esclusivamente eulogistico: la cultura non è sempre “buona” ma attribuire la causa di ciò alla natura umana significa sottrarsi alla responsabilità di ciò che noi stessi abbiamo creato. Il senso comune attribuisce a stati mentali, cultura e credenze lo statuto di elementi causali ed è proprio questa la dimensione a cui la psicologia si deve riavvicinare, diventando “popolare”, riconoscendo che ogni verità è figlia del punto di vista che si assume come proprio. Con questo Bruner propone di ribaltare il rapporto tra biologia e cultura assumendo che sia la seconda a guidare l’uomo; la prima costituisce piuttosto un limite che la cultura permette di superare. “Il mio punto di vista presuppone […] che sia la cultura e non la biologia a plasmare la vita e la mente dell’uomo, a dare significato all’azione inserendo gli stati intenzionali profondi in un sistema interpretativo. La cultura può farlo imponendo i modelli che fanno parte dei suoi sistemi simbolici: il linguaggio e le modalità del discorso, la forma della spiegazione logica e di quella narrativa, e i modelli […] della vita sociale […].[4] Questa prospettiva, inoltre, dà conto e spazio alla complessità dei processi di significazione in presenza di appartenenze multiculturali e condizioni multi identitarie a cui l’individuo contemporaneo fa capo. Ogni cultura, dunque, ha la sua psicologia popolare che spiega e descrive le modalità con cui noi impariamo a comportarci nel suo ambito. Per questo motivo è in grado di occuparsi anche di ciò che esce dall’ordinario, dando a questo una forma comprensibile attraverso la narrazione. In questo senso l’eccezione viene ricompresa come una delle possibilità, anziché essere considerata un errore del sistema di predizione, semplicemente esplicitando, anche a posteriori, il perché – ad esempio, un comportamento aggressivo può essere spiegato, ed eventualmente accettato, come frutto di un particolare stato d’animo del momento raccontando “come stanno le cose”. Gli essere umani nelle loro interazioni reciproche costruiscono “[…] una dimensione che potremmo definire del ‘canonico e dell’‘ordinario’ quale sfondo in base al quale interpretare e assegnare un significato narrativo alle violazioni e alle deviazioni dagli stati ‘normali’ della condizione umana […].”[5] La narrazione diventa qui un metodo per l’interpretazione e la negoziazione dei significati; il che costituisce, secondo Bruner, uno dei grandi risultati dello sviluppo umano in senso ontogenetico, filogenetico e culturale.

Le qualità del narrare relative alla significazione sono analizzate anche da Bockmeister che definisce la narrazione come una categoria per la comprensione sociale e di noi stessi. È una forma potentissima di comunicazione e cognizione per tre caratteristiche essenziali: “La prima caratteristica è che la narrazione fornisce una prospettiva all’esperienza, alla conoscenza, al pensiero, all’immaginazione e a gran parte della nostra vita emotiva. […] Una seconda qualità […] è che collega tramite la prospettiva diversi elementi distinti l’uno dall’altro in modo da costituire un insieme, una figura su uno sfondo […] una ‘gestalt’ che è più della semplice somma dei suoi elementi isolati. […] In terzo luogo, la narrazione è una pratica, un modo di fare le cose. […] è ciò che Wittgenstein ha descritto come ‘forma di vita’.”[6]

Questa efficacia del metodo narrativo nel rendere una serie di eventi come parte di uno stesso insieme, viene tuttavia subordinata al superamento dell’ordine cronologico come unico criterio per la misurazione della sua coerenza. Oltre alla coerenza cronologica, Brockmeister illustra quelle più significative – coerenza della storia, conversazionale, performativa e multipla. Attraverso questa precisa analisi di ogni registro narrativo l’autore ci guida alla radice della nascita dei significati e, soprattutto, a scoprire la possibilità di convivenza non belligerante di molti significati, anche apparentemente incompatibili, all’interno di una storia. Il principio attivo è la moltiplicazione dei punti di vista, la legittimazione alla loro esistenza e coesistenza. In questo senso l’autore, attraverso l’analisi della storia di Hanna[7], fa emergere la molteplicità delle storie in essa contenute e dei riferimenti ad altri tempi, luoghi e interlocutori cui la storia stessa rimanda. “Il concetto decostruzionista di ‘intertestualità’ […] si propone di indicare i molteplici modi in cui qualsiasi testo letterario o naturale sia inseparabilmente mescolato con altri testi o altre menti. Ogni testo […] è luogo di intersezioni di innumerevoli altri testi e parole. […] è evidente che i significati derivano dal collegamento a un mondo più vasto di testi e significati.”[8] Ancora una volta emerge la funzione di collegamento e di “collante” che ricopre la narrazione, una funzione anche sociale, di coesione e convivenza possibile. Il respiro sociale della narrazione ci riporta alla tradizione antropologica che, attraverso i resoconti etnografici, ci fornisce un chiaro esempio di come essa permetta di comprendere realtà molto distanti e differenti da quella da cui proviene chi osserva, ovvero a un mondo più vasto di testi e significati.

A tal proposito la Sclavi afferma che “[…] un abile osservatore è anche un ‘etnografo’ in quanto […] deve rapportarsi a ciò che osserva e a sé stesso mettendo al centro le dinamiche dell’interculturalità.”[9] Entriamo così in contatto con il concetto di cornice di riferimento, utilizzato dall’autrice per spostare l’attenzione dai comportamenti isolati ai comportamenti contestualizzati in un insieme di norme, abitudini, consuetudini che conferiscono significato all’agire, appunto una cornice di riferimento che viene abitualmente data per scontata – e per questo non percepita. Secondo la Sclavi, sono soprattutto le sensazioni fastidiose che proviamo di fronte a un certo evento o comportamento che ci segnalano l’entrata in una cornice di riferimento diversa dalla nostra, dove stiamo meno comodi, meno sicuri, dove non ci sentiamo a nostro agio. In questo caso le emozioni diventano un importante veicolo di conoscenza se avremo l’accortezza di considerarle informative non tanto su quello che vediamo quanto piuttosto sul modo in cui guardiamo. Quello che la Sclavi ci propone è di compiere un triplo passaggio: dal nostro personale punto di vista, a un punto di vista diverso dal nostro che, tuttavia, possiamo capire anche se non lo condividiamo, fino a un punto di vista che non ci saremmo mai aspettati che potesse esistere. Il terzo passaggio è, in altre parole, un cambio di cornice di riferimento dove esistono significati basati su premesse proprie di quella cornice – che non è la nostra. La chiave di questa lettura è fenomenologica e l’autrice specifica di utilizzala, per accompagnarci a “vedere in modo fenomenologico”, incrociando le due strategie: quella trascendentale, preferita da Husserl, che afferma che ciò che vediamo (noema) dipende dalla prospettiva da cui guardiamo e quella ermeneutica, preferita da Hidegger, che fa leva sul potere evocativo delle parole per farci sperimentare una certa percezione di ciò che vediamo, in altre parole “[…] si racconta una storia. La storia narrata evoca un contesto dentro il quale l’esperienza prende forma.”[10]

L’Arte di ascoltare, proposta dalla Sclavi, è saper dare la possibilità a tutte le voci di cui una storia è composta di poter essere colte. Nella sua più compiuta realizzazione ci insegna che tutti, legittimamente, possono avere ragione e che per coloro che non siano il giudice saggio[11] e siano guidati da una interpretazione assoluta del principio di non contraddizione, questa è la cosa più difficile da accettare. Il superamento dell’idea di poter avere ragione solo a condizione che qualcun altro abbia torto sembra il principio su cui basare la possibilità della coesistenza delle differenze, che la globalizzazione del pianeta ha privato dei confini entro i quali sono nate, cresciute e hanno vissuto, fino a un certo punto, indisturbate.

[1] Bruner J., La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, pag. 15

[2] Ibidem, pag 16

[3] Ibidem, pag. 31

[4] Ibidem, pag. 47

[5] Ibidem, pag.73

[6] Brockmeier J., Narrazione e cultura, Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi), 2014, pag. 64

[7] Ibidem, pagg. 74-76

[8] Ibidem, pag. 80

[9] Sclavi M., Arte di ascoltare e mondi possibili, Bruno Mondadori, 2003, pag.15

[10] Ibidem, pag. 68

[11] Ibidem, pag 33

Chiedi info