Dedico la riflessione di oggi a Monica, che ringrazio per avermi dato l’ispirazione con due suoi gesti quotidiani che ho molto apprezzato e trovato di straordinaria e preziosa normalità.

Oggi l’essere normali pare spesso la più grave delle colpe, l’onta assoluta, la meschinità più bassa, la vergogna peggiore. Una condizione svuotata di ogni valore.

Oggi vorremmo tutti essere speciali – nel senso più comunemente attribuito al termine, cioè eccezionale, straordinario, egregio, impareggiabile, di qualità non comune, fuori dal comune, eccellente, ottimo, originale, raro.

Questa luce sulla specialità, nel senso comune del termine, mette in ombra una verità che nessuno dovrebbe onestamente negare e per nessuno intendo “nessuno che sia dotato di onestà intellettuale insieme a una sufficiente quota di consapevolezza personale”:

  • Sono le persone normali, con desideri normali, relazioni normali, idee normali, che compiono azioni normali a far fluire la vita nel mondo.

Fosse anche solo per una questione numerica.

Gli esempi di persone speciali a cui il nostro “normale” aspira (i geni, i campioni, le grandi menti, l’eroe di ognuno di noi) sono la netta minoranza, non sono del tutto a loro agio in una società fatta di persone normali – non a caso il senso tecnico pedagogico di “speciale” è quello di soggetto deficitario con conseguente svantaggio nella relazione con il contesto – e da queste ultime dovrebbero essere aiutati, o imparare, a vivere in cambio del servizio che la loro specialità può restituire alla collettività.

Invece quello che succede è che sono le persone normali che chiedono aiuto agli eroi per avere una vita migliore, svalutando la loro superiorità rispetto a questi ultimi in tema di “vita di tutti i giorni”. Sarebbero i poeti, gli scienziati, i campioni, gli artisti – e così via – a dover imparare dalle persone normali come si vive una vita normale: come non trascurare i propri figli lavorando otto ore al giorno, pensando ai loro bisogni di sostegno e di presenza, alla propria famiglia, ai rapporti col vicinato e con le persone che si incontrano per strada tutti i giorni, a cosa si fa quando si fora una gomma per strada, a come, quando e dove è meglio fare la spesa, a come e quando si paga un F24, a come si sta vicino a una persona quando ha un problema senza che l’essere presenti o solidali diventi di ritorno un problema.

Le persone speciali sono non di rado dei “poveri” individui  – nel senso comune di “povero cristo” dunque, paradossalmente, bisognoso di compassione nell’accezione nobile di patecipazione alla sofferenza dell’altro – che spesso, sotto le mentite spoglie di una seducente sicurezza o che come tale viene percepita, nascondono l’incapacità di vivere, di instaurare relazioni equilibrate, che tutto possono fare tranne che insegnare a vivere, trasmettere la competenza del vivere. In particolare, questo è un grande problema per i figli reali di persone speciali, ivi comprese anche quelle che credono di esserlo o che aspirano fortemente a esserlo.

Relativamente a ciò, non sarebbero il miglior esempio da seguire, semplicemente perché non è loro compito, né intenzione, né aspirazione, quella di essere intenzionalmente da esempio a qualcuno: semplicemente esprimono loro stessi per quello che sono  – il che, per contro, costituisce uno tra i contributi che invece possono dare in termini di formazione: ispirare le persone a esprimersi per quello che sono, nel modo più autentico possibile.

Quello che invece io vedo succedere in modo ricorrente è che le persone normali hanno come massima aspirazione quella di trasformarsi in persone speciali o, in alternativa, di pendere dalle labbra di una specialità idealizzata. In altre parole: di aspirare a diventare ciò che non si potrà mai essere, qualcosa al di fuori della propria portata che è frutto di un meccanismo molto diffuso di idealizzazione non funzionale alla vita. Rinunciando così a diventare ciò che realmente e compiutamente si potrebbe davvero essere.

È una tendenza, che personalmente percepisco come collettiva, alla mitizzazione dell’essere speciali a tutti i costi.

Tutto ciò potrebbe sembrare un elogio della normalità ma è tutt’altro. Lo definirei invece in due modi:

1) “Autosvalutazione della normalità” nel senso che lo scarso valore della normalità è frutto di una svalutazione che le persone normali fanno di loro stesse, incapaci di apprezzare la loro reale condizione sottostimandone il valore e, proprio per questo motivo, cercando qualcosa che ai loro occhi “valga di più”.

2) “Responsabilità della normalità” nel duplice senso: a) che è responsabilità delle persone normali verso loro stesse dare il giusto valore a questa condizione rivendicandola come propria; b) che essere normali è un atto di responsabilità.

Nella mia vita mi sono imbattuto spesso nei figli, veri o acquisiti, di persone speciali – o di icone di specialità – che, purtroppo, dai loro “genitori” hanno ereditato l’incapacità di vivere – e la relativa fatica – piuttosto che farsi ispirare dalla loro capacità di ricercare ed esprimere in modo autentico la propria passione.

Forse, il vero esempio da prendere dalle persone speciali non è tanto “quello” che fanno ma piuttosto “come” lo fanno stando però attenti alla loro auto-centratura che le rende spesso inconsapevoli e fortemente disattente verso ciò che hanno intorno, soprattutto verso chi vive nelle loro immediate vicinanze.