“Terapeutico” è oggi una parola sequestrata da logiche corporativistiche e difensive, una logica che Porges, il padre della Teoria polivagale, potrebbe definire come guidata da una neurocezione – percezione senza consapevolezza – di pericolo più che di connessione. Proprio questa è l’impressione: che chi si prende il diritto di proprietà di questa parola lo faccia perché guidato, senza saperlo, dalla sensazione di non sentirsi al sicuro. E questo non favorisce la connessione – e nemmeno la differenziazione, bensì il distanziamento. Ma andiamo con ordine.

Che la sensazione soggettiva di sicurezza ci predisponga alla connessione con gli altri esseri umani e con l’ambiente che ci circonda lo abbiamo capito da un tempo indefinito, al pari del fatto che mettere a proprio agio le persone, parlando loro dolcemente, sorridendo le ha da sempre fatte sentire in sicurezza. Oggi, che questa realtà autoevidente è provata scientificamente dalla Teoria polivagale, sappiamo per certo che il sistema nervoso autonomo (SNA) di un essere umano, se l’ambiente è percepito (o meglio “neurocepito”) come sicuro, è strutturato per connettersi e ingaggiarsi socialmente, che l’attivazione di questi tre stati fisiologici– sicurezza, pericolo, minaccia per la vita – è gerarchica e indipendente dalla nostra volontà (co-regolazione) e che conoscendo il funzionamento del nostro SNA sarà più facile per noi contribuire intenzionalmente alla sua regolazione (autoregolazione). Dobbiamo ringraziare Porges e Dana per l’importante contributo che il loro lavoro ha dato ai professionisti delle relazioni di aiuto e alla maggior comprensione dell’essere umano. Tuttavia dovremmo, al pari, rendere omaggio all’intuizione umana come a una formidabile anticipatrice della scienza – questo caso ne è un esempio – e ammettere che la scienza, in quanto pratica umana, è subordinata agli aspetti umani, da questi nasce e per effetto di questi prospera.

Da un punto di vista clinico, la capacità di favorire la regolazione degli stati fisiologici di connessione con il mondo, di pericolo e di minaccia prepara il terreno alla relazione di cura. Dovremmo allora poter riconoscere la qualità terapeutica dell’azione di tutti coloro che accolgono un essere umano, gli sorridono, lo mettono a proprio agio, gli chiedono cosa desidera e cercano di soddisfare questo desiderio e di poterla così definire senza remore.

Questo preparare il terreno, che fa parte della terapia, è dunque terapeutico.

L’uomo e la relazione umana con certe caratteristiche sono terapeuti e terapeutici.

Non dico “siamo tutti terapeuti” ma dico “siamo tutti potenzialmente terapeutici” e chi ha una base che lo rende sufficientemente consapevole di ciò e intenzionalmente pratica quel certo tipo relazione umana è, di fatto, un terapeuta.

Siamo fatti per restare uniti gli uni con gli altri: questo ci dice la stessa scienza alla quale fanno riferimento coloro che invece di focalizzare la loro attenzione su cosa sia effettivamente efficace nel prendersi cura delle persone e riconoscerne la validità, vogliono in modo esclusivo ed escludente stabilire a priori cosa lo sia e cosa no, seguendo la logica del distanziarsi, del tenere e tenersi distanti.

La scienza mi aiuta molto a capire il mondo, il suo utilizzo strumentale come ad esempio le logiche di corporazione, un po’ meno. E nemmeno rende, quest’ultimo, giustizia alle vere intenzioni della scienza stessa e a donne e uomini che dedicano la loro vita al suo prosperare.