Il primo pilota nero della storia in Formula 1 ha introdotto in modo prorompente il tema del razzismo in uno degli ambienti più bianchi dello sport.

Lo ha fatto partendo da un agghiacciante comportamento razzista, oltre che disumano e criminale, di un poliziotto degli Stati Uniti d’America che ha strangolato a morte un uomo afroamericano mettendogli un ginocchio sulla trachea fino a che quest’uomo è morto soffocato.

Questo triste episodio ha talmente scioccato Lewis Hamilton che lo stesso ha deciso di usare la sua immagine, la sua influenza e il suo potere all’interno di un ambiente in cui ormai da anni è il dominatore incontrastato, per urlare al mondo: “Adesso basta, non starò zitto, e parlerò da un ambiente che non è abituato a esporsi così tanto”.

Da lì, tutti i piloti, prima della partenza, indossano scritte contro il razzismo e possono scegliere se inginocchiarsi – come quel poliziotto – a rafforzare quel messaggio.
Fin qui, tutto bene, anzi benissimo.

Poi inizia a emergere un dubbio: ma chi non si inginocchia sarà abbastanza anti-razzista oppure no?
E qui comincia a maturare, nel corridoio dei social – che un tempo si chiamava opinione pubblica – l’idea che chi non si inginocchia, cioè chi non sceglie di comportarsi in quel modo, non solo non è abbastanza anti-razzista ma addirittura sarebbe razzista.

Dunque, dal silenzio totale, tollerato fino a ieri, si deve passare all’urlo totale, se no non si è credibili come antirazzisti. Da qui, un antirazzista timido, o introverso o riservato non è più un antirazzista che potrebbe, al limite, impegnarsi un po’ di più a esprimere una sua convinzione o trovare un modo più incisivo, vista l’importanza del tema.
Diventa semplicemente un razzista.

Charles Leclerc, uno tra i piloti che ha scelto liberamente il suo modo di essere antirazzista portando le scritte e osservando un minuto di silenzio insieme a tutti gli altri, inginocchiati e non, oggi sui social è stato appunto per questo accusato di essere razzista.

Ora ci sono diverse cose che non mi convincono in tutto ciò:
1) Concentrare in un solo comportamento – in questo caso in un non-comportamento –  la possibilità di contenere l’enormità che è il razzismo è un’arma a doppio taglio. Ad esempio, un razzizta potrebbe, inginocchiandosi, passare inosservato o addirittura, usare in modo strumentale la possibilità che questa logica gli offre di camuffarsi o, ancora peggio, lavarsi la coscienza in modo facile e indolore.

2) E’ già molto difficile individuare e condannare tutti i comportamenti razzisti, mi chiedo perciò che senso abbia considerare anche i non-comportamenti (presunti) antirazzisti. Tra l’altro, il condannare un non-comportamento è qualcosa di cui, chi di razzismo se ne intendeva davvero – ad esempio tutti i regimi totalitari della storia-, ha fatto a suo tempo ampio uso nel propagandarsi.

3) La lotta a un fenomeno così ampio, complesso e diffuso come il razzismo ha bisogno di modalità ampie, complesse e diffuse per esprimersi compiutamente. Anche di quelle silenziose, intime, locali che andrebbero, anzichè svalutate, rispettate e sostenute a supporto di quelle più evidenti.

4) Che tutti possano continuare a scegliere come esprimere la propria idea e a cambiare liberamente ogni volta la propria scelta se lo desiderano è la cosa che più allontana una società dal razzismo.

Per conto mio, in tutta questa vicenda, razzista è il comportamento di quel poliziotto. Il resto, se proprio dobbiamo, chiamiamolo in un altro modo.

I social non sono un soggetto a cui rivolgersi individualmente a quattr’occhi.
In questo caso credo che sia un vero peccato perchè gli dedicherei i miei pensieri sull’argomento sperando poi di poter avere anche una risposta. Ma questo è, fino a ora almeno, impossibile.

Per il momento mi limito a essere solidale con tutti coloro che esprimono il pensiero che il razzismo sia un atteggiamento mentale avvilente e desolante che produce comportamenti che vanno dallo stupido al criminale.

Compreso chi, come Charles Leclerc, decide di farlo come crede.